Un documentario che parla delle memorie traumatiche e come trasformarle
Gabor Maté è un medico e scrittore ungherese che, a partire dalla propria esperienza personale, ha concentrato la sua ricerca sul trauma e i suoi effetti su bambini e adulti. Esperienze traumatiche, infatti, possono influenzare i processi di crescita modificando lo sviluppo cerebrale, i comportamenti e le relazioni con gli altri. Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che il trauma può avere una trasmissione intergenerazionale, in quanto persone che presentano traumi non risolti, soprattutto se risalenti alla prima infanzia, possono involontariamente trasmetterli ai figli, attraverso i propri comportamenti o lo stile relazionale.
Il riconoscimento di un vissuto traumatico e delle conseguenze che ha causato rappresenta il primo passo verso una consapevolezza che può aprire la strada a un percorso di elaborazione, per questo Gabor Maté nel suo documentario parla di saggezza del trauma.
Cos’è il trauma?
Possiamo parlare di trauma quando un evento, o una serie di esperienze ripetute nel tempo, causa una situazione emotiva insopportabile per il soggetto, mettendone a rischio la continuità e l’unità psichica. La parola trauma deriva dal greco trayma che significa trafittura, perforamento, da cui il significato di lesione o ferita. Gabor Maté sottolinea che:
“il trauma non è ciò che è successo, ma ciò che accade dentro l’individuo in risposta a quello che è accaduto. Quindi c’è un evento traumatico, e poi c’è la ferita subita, la ferita del trauma. Se il trauma corrispondesse a ciò che è accaduto nel passato, non sarebbe possibile fare nulla, mentre la ferita può essere guarita. Quindi il trauma è una ferita non rimarginata, che fa male se viene toccata, e se si è traumatizzati porta a reagire come se si venisse feriti di nuovo”.
In alcuni casi, quindi, le memorie traumatiche possono essere paragonate a ferite ancora aperte. Dalle ferite, però, deriva anche il tessuto cicatriziale, che per sua natura è duro, rigido, non flessibile, non cresce e non ha terminazioni nervose. I traumi possono dunque manifestarsi anche come aree dove è presente rigidità e in cui manca flessibilità e capacità di crescita.
Trauma e dissociazione
“Quando, da bambini, si viene feriti e non si è in grado di scappare né di proteggersi, la difesa che viene messa in atto consiste nel disconnettersi dalle sensazioni e dal corpo, da sé stessi. Tale disconnessione causa numerosi problemi, sia mentali che fisici”, prosegue Maté.

Il fenomeno della dissociazione psichica consiste nell’esclusione di alcuni contenuti dalla coscienza, dalla memoria e quindi dalla propria identità. Spesso non è l’evento traumatico in sé a essere dimenticato, ma le sensazioni e le emozioni associate a quell’evento. Se dunque il trauma rappresenta una disconnessione da sé, guarire significa tornare all’interezza psichica, riconnettendo gli aspetti somatici, emotivi e cognitivi legati alle esperienze vissute, così da ricostruire una narrazione che possa dare un nuovo significato alla propria storia personale. I metodi per farlo possono essere diversi, per esempio attraverso un percorso psicologico, oppure lavorando sul corpo o attraverso la ricerca spirituale, ma l’obiettivo consiste sempre nel tentare di avvicinarsi alla totalità.
Come si manifesta il trauma in età adulta
Il trauma può manifestarsi in diverse forme. Possono verificarsi eventi traumatici eclatanti, come abusi sessuali, fisici ed emotivi, lutti familiari, divorzi, oppure possono essere presenti ambienti traumatici, come un’atmosfera familiare caratterizzata da aggressività e violenza, la presenza di un familiare con malattia mentale, o in carcere, o affetto da una dipendenza, separazioni e vissuti di rifiuto.

Oppure il trauma può manifestarsi come trascuratezza o gravi carenze. In questo caso non si verificano eventi negativi, ma i bambini non ricevono ciò di cui hanno bisogno, come sicurezza, amore incondizionato e accettazione. Come abbiamo visto, ciò può accadere quando i genitori, a causa di esperienze traumatiche nel loro passato, non sono in grado di far sentire il bambino visto, accolto e amato come dovrebbe.
Lavorare sul trauma
Gabor Maté individua tre passi che possono aiutare nella trasformazione delle memorie traumatiche.
- Il primo passo consiste nel riconoscimento. Riconoscere i segnali fisici ed emotivi che possono indicare la presenza di esperienze traumatiche, come un eccessivo allarme e reazione emotiva o malessere fisico in determinate situazioni o rispetto ad alcuni temi in particolare.
- Il passo successivo è interrogarsi: “Quando una persona soffre per una crisi, un divorzio o una malattia, o è insoddisfatta del proprio lavoro e della propria vita, comincia a chiedersi come sia successo, e quella domanda è la più importante. Non Perché proprio a me?, ma Cosa c’è in me che può aver contribuito a far sì che ciò accadesse?.
- A questo punto è necessaria un’assunzione di responsabilità, e questo rappresenta il terzo passo: “ciò che è accaduto durante l’infanzia è accaduto, ma nel momento presente è mia responsabilità fare qualcosa”.
Trauma e depressione
La depressione non è un sentimento, ma una condizione psichica caratterizzata da senso di vuoto, perdita, insensatezza, disagio, mancanza di speranza. Analizzando il significato della parola depressione, deprimere qualcosa significa “spingerlo verso il basso”. Nella depressione ciò che viene spinto verso il basso sono le emozioni. Esse possono venire represse quando durante l’infanzia si è appreso che vivere le emozioni era più doloroso e pericoloso che non viverle.

Gabor Matè afferma quindi che “la depressione, ponendosi le giuste domande, può insegnare qualcosa ed essere un segno che guida verso la guarigione”. Eschilo nell’Agamennone scrisse che “attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione”. Per potervi riuscire, però, spesso è necessario chiedere aiuto.
“Perché abbiamo dimenticato come chiedere aiuto?” si chiede Maté. “Perché abbiamo imparato che facendolo ci si espone alle critiche, perché durante l’infanzia i genitori erano troppo stressati o occupati, o perché ci si rende vulnerabili”. Per questo chiedere aiuto per la prima volta può risultare molto difficile.
Spesso quando ci arrabbiamo, per esempio quando un nostro bisogno non viene soddisfatto, ci rendiamo conto che ciò avviene perché si riattiva in noi un sentimento, come la frustrazione, sperimentato quando eravamo bambini. Quando ciò si verifica, può essere un’ottima occasione per interrogarsi e cercare di comprendere cosa sta realmente accadendo. Il trauma può manifestarsi in molti modi, come rabbia, senso di impotenza, frustrazione, negazione della realtà, e ognuno di questi segnali può spingerci a interrogarci e insegnarci qualcosa.
La relazione mente-corpo
È necessario modificare il modo di considerare la malattia e la salute e assumere una prospettiva scientificamente olistica: l’unità mente-corpo è ormai consolidata da tempo anche nella scienza. Soprattutto per quanto riguarda le malattie croniche, è di fondamentale importanza la relazione tra mente, corpo e ambiente circostante. A volte il trauma agisce sull’individuo provocando livelli molto elevati di stress, che si riversa sul corpo e può contribuire allo sviluppo di malattie autoimmuni, come artrite reumatoide, fibromialgia, colite ulcerosa, morbo di Crohn, sindrome dell’affaticamento cronico e altre ancora.
Gabor Maté sostiene che all’interno della medicina occidentale, finora non era stata data sufficiente rilevanza ai traumi psichici. Oggi le cose si stanno modificando, anche grazie alla pubblicazione di testi come Il corpo accusa il colpo di Bessel van der Kolk, ma il percorso è ancora lungo. La guarigione è una capacità innata di tutti gli organismi e deve avvenire all’interno della persona, la terapia può contribuire a essa, ma l’individuo deve agire in prima persona, prendendo su di sé la responsabilità e decidendo attivamente e consapevolmente.
Vivere autenticamente
Il buddismo insegna che, quando conosciamo la causa della nostra sofferenza, questo è già un grande passo verso la guarigione. È essenziale quindi iniziare ponendosi le giuste domande. Comprendendo l’origine di un determinato comportamento, che magari è stato appreso durante l’infanzia come meccanismo di adattamento, è possibile arrivare a modificarlo.

È necessario riconoscere quando non si è autentici, cioè fedeli a sé stessi. È possibile provare a farlo attraverso un esercizio che Matè chiama indagine compassionevole. Si tratta di dedicare circa venti minuti alla settimana per rispondere a una serie di domande, senza nessun tipo di giudizio o critica verso sé stessi.
- Quando, durante questa settimana, non ho detto di no? Chiedersi quando avresti voluto dire di no a qualcosa, ma, magari per non deludere gli altri, o per non contraddire qualcuno, non l’hai detto.
- Qual è stato l’impatto su di me per non aver detto di no? È possibile riconoscere un effetto a livello emotivo, come affaticamento, irritazione, risentimento, oppure a livello fisico, con mal di schiena, tensione muscolare, mal di pancia o altro.
- Quale convinzione inconscia si cela dietro la mia incapacità di dire di no? Per esempio, il pensiero che se dicessi di no sarei una brutta persona, mi sentirei in colpa, non piacerei agli altri…
- Dove ho strutturato questa convinzione? Magari durante l’infanzia o l’adolescenza, si è formata in me la convinzione che se dicessi di no sarei egoista, che se ho delle necessità mi devo sentire in colpa, che se agissi in base ai miei bisogni sarei una cattiva persona.
- Chi potrei essere senza questa convinzione?
- Quando non ho detto di sì? A volte, a causa dei troppi impegni, non abbiamo tempo ed energie per dire sì a ciò che davvero vorremmo fare, che si tratti di dipingere, suonare uno strumento, danzare, amare, viaggiare, fare giardinaggio o molto altro.
Queste domande posso rappresentare uno spunto di riflessione e un punto di partenza per provare a coltivare la fedeltà a se stessi, alla propria unicità come individui, sviluppando il proprio mondo interiore e migliorando così anche le relazioni con gli altri.