L’autocritica è una funzione psicologica che si sviluppa come capacità di riflettere su noi stessi e i nostri comportamenti e può avere diverse finalità, come quella di darci sicurezza e protezione o di motivarci a migliorare. Come vedremo, essa è influenzata da numerosi fattori, e, in alcuni casi, può diventare troppo frequente o eccessivamente severa. In questo articolo andremo quindi ad esaminare cos’è l’autocritica, cosa si intende con autocritica severa e da dove nasce. In seguito vedremo come è possibile agire su forme troppo rigide di autocritica attraverso gli insegnamenti dell’autocompassione, o self-compassion, per imparare a dare ascolto alle nostre parti più bisognose e migliorare così la conoscenza di noi stessi, accogliendo le nostre parti fragili e ampliando la personalità.
Cos’è l’autocritica
L’autocritica è una capacità molto importante per il nostro benessere psicologico e il nostro sviluppo, in quanto ci consente di avere dei dubbi su noi stessi e metterci in discussione in modo proficuo e adeguato. Se, però, tale autocritica diviene troppo severa, può rappresentare un motivo di disagio e difficoltà. Spesso infatti da una valutazione adeguata di cosa è andato bene e cosa no, si trasforma in una tendenza a dire a noi stessi cose molto spiacevoli, in una voce interiore che ci fa sentire inadeguati, incapaci, insoddisfatti, non all’altezza, come se ci fosse in noi qualcosa che non va bene nell’aspetto, o nel modo di essere o nelle nostre competenze.

L’autocritica si esprime attraverso parole severe, dette a noi stessi con tono duro, come quando ci ripetiamo sono un idiota, avrei potuto fare meglio, non sono capace, gli altri sono meglio di me… sottolineando i nostri errori e le nostre brutte figure. Oppure può esprimersi attraverso una sensazione o uno stato d’animo, per esempio sentirsi fuori luogo, o preferire rimanere ai margini perché ci si sente sbagliati o inferiori agli altri.
Da dove nasce l’autocritica severa?
Un’autocritica eccessivamente severa può derivare da diversi fattori, legati allo sviluppo infantile, le relazioni familiari e il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Inoltre, giocano un ruolo importante anche lo stile educativo e il contesto culturale e sociale. Attraverso un percorso di analisi è possibile quindi indagare come tutti questi elementi abbiano influito sulla storia individuale di ognuno, intrecciandosi con la propria disposizione personale.
I principali fattori che possono influenzare lo sviluppo dell’autocritica sono:
- Attaccamento insicuro
- Educazione molto orientata al successo e alla performance con stigmatizzazione dell’errore
- Confronto con i pari: nel caso dell’autocritica severa, tale confronto è costante ed eccessivo e ci vede sempre perdenti
- Eccesso di aspettative
Funzioni dell’autocritica
- Sicurezza e protezione: lo scopo primario dell’autocritica è di darci protezione e sicurezza, e ciò avviene attraverso il controllo e il meccanismo di difesa dell’evitamento: evitando i rischi e gli errori, ci proteggiamo dalla vergogna e dal senso di colpa che proviamo quando sbagliamo, dalle critiche e dalla delusione di fronte ai fallimenti
- Motivazione: un’altra funzione dell’autocritica è quella di spronarci a migliorare, ma spesso riteniamo erroneamente che per motivarci abbiamo bisogno di trattarci con severità
Numerosi studi hanno invece dimostrato come lodi, incoraggiamenti e ricompense siano più efficaci nel migliorare le prestazioni rispetto a critiche e punizioni.
Il rischio è che quello che nasce come un meccanismo di protezione, finisca invece per arrecarci dei danni: a lungo andare questi pensieri critici su noi stessi diventano essi stessi uno stimolo minaccioso, da cui desideriamo proteggerci. Si attiva così il sistema di regolazione emotiva che lo psicologo Paul Gilbert ha chiamato sistema di protezione dalla minaccia. I pensieri autocritici aumentano il nostro livello di ansia, generando un circolo vizioso, per cui nel tentativo di utilizzare un vecchio meccanismo di difesa, diventiamo in realtà sempre più incapaci di difenderci e proteggerci. Quindi l’autocritica perde la sua funzione protettiva o motivante, e diviene potenzialmente dannosa.
Effetti dell’autocritica
Numerosi studi indicano che un’autocritica eccessiva e severa è collegata a difficoltà come:
- bassa stima di sé
- senso di debolezza
- senso di colpa
- perfezionismo
- perdita di motivazione
- ansia sociale
- autolesionismo
- problematiche legate all’immagine corporea
Oltre a queste conseguenze negative, l’eccesso di autocritica può portare a sviluppare vere e proprie problematiche psicopatologiche, per questo motivo psicologi e psichiatri si sono occupati a lungo del tema dell’autocritica. Lo psicoterapeuta Sidney Blatt, che si è occupato delle diverse tipologie di personalità depressive, parla di auto-critica (self-criticism) e di auto-colpa (self-blame), come forte preoccupazione per la propria realizzazione e sentimenti di colpa, fallimento, indegnità e vergogna. L’auto-colpa è un processo cognitivo secondo cui l’individuo attribuisce gli eventi negativi che gli accadono a se stesso o al proprio carattere, nonostante siamo costantemente esposti a condizioni al di fuori del nostro controllo.
Paul Gilbert, ideatore dell’approccio basato sulla compassione (Compassion-Focused Therapy), distingue due tipi di autocritica: una accompagnata da sentimenti di aggressività e odio verso di sé, e una che si traduce in una forma di inadeguatezza. Entrambe possono generare un malessere che può arrivare a diventare psicopatologico.
L’autocritica severa è una categoria transdiagnostica, cioè che attraversa svariati quadri psicopatologici: dalla depressione, all’ansia, ai disturbi alimentari a forme di autolesionismo e alcuni tratti di personalità.
Dall’autocritica all’autocompassione

Mentre l’autocritica continua a porci domande come Hai fatto bene? Hai fatto abbastanza? Oppure Sei abbastanza?, la domanda centrale nell’ottica della Self-compassion è: -Di cosa hai bisogno adesso per prenderti cura di te?-. La prospettiva quindi si sposta dallo stimolo continuo al fare di più e meglio, al domandarci di cosa abbiamo bisogno. Si tratta di sviluppare la capacità di trovare dei momenti e degli spazi per prendersi cura di sé ed essere gentili con noi stessi. Per fare ciò, è necessario ampliare la nostra consapevolezza, così da conoscerci meglio ed essere in grado di dare ascolto ai nostri bisogni.
La Mindfulness è una condizione interiore che ci permette di osservare come ci relazioniamo alla situazione in cui ci troviamo, portando consapevolezza a quello che ci sta succedendo nel momento presente. Si tratta quindi di dirigere la nostra attenzione in modo intenzionale e non giudicante. Sospendere il giudizio significa prendersi una pausa, non essere precipitosi nel dare una valutazione, ma osservare con più distanza all’esperienza che stiamo vivendo, per raccogliere informazioni e calmarci, al fine di riuscire a guardare in modo diverso alla situazione e a noi stessi. Attraverso la pratica, questo può divenire un atteggiamento che entra a far parte della nostra vita quotidiana.
Self-compassion
Kristin Neff descrive la Self-compassion come la capacità di trattare te stesso come tratteresti un tuo caro amico, in momenti difficili. Mentre siamo portati ad essere empatici e comprensivi nei confronti di un amico che si trova in difficoltà, pronti a rassicurarlo e sostenerlo, nei confronti di noi stessi spesso siamo molto critici. La psicologa K. Neff e lo psicoterapeuta Chris Germer hanno elaborato un protocollo di self-compassion che viene aggiornato ogni anno e praticato in tutto il mondo. All’interno di tale protocollo vengono coltivati tre aspetti fondamentali:
- Mindfulness
- Gentilezza verso se stessi
- Umanità comune
Il senso di comune umanità deriva dalla consapevolezza che siamo tutti collegati a un livello profondo. Questo consente di percepire un senso di connessione con le altre persone, al posto del senso di isolamento che spesso la sofferenza porta con sé.
In questo modo, la Self-compassion consente di creare un equilibrio tra due energie:
- accettazione verso sé stessi, per alleviare la nostra sofferenza
- forza, per alleviare la sofferenza negli altri
L’accettazione verso noi stessi si esprime dandoci conforto e parlandoci con tenerezza, sostituendo la voce dell’autocritica con quella dell’autocompassione. Alleviare la sofferenza negli altri, invece, è possibile proteggendoli, ossia definendo confini, provvedendo alle loro necessità e motivandoli. Tenerezza e forza gentile sono gli strumenti per prendersi cura di sé e far sentire la propria voce nel mondo.
Coltivare l’autocompassione permette quindi di migliorare la consapevolezza di sé, aumentando il livello di soddisfazione per la propria vita.
Promuovere la consapevolezza di sé e lo sviluppo di un sano dialogo interno
L’autocompassione non rappresenta quindi una forma di auto indulgenza, in quanto si basa sulla capacità di conoscersi meglio, prendendo coscienza sia dei propri limiti che delle proprie risorse.
Carl Gustav Jung parla di riconoscere ed entrare in contatto con la nostra inferiorità psichica, la parte di noi meno adattata dal punto di vista del riconoscimento sociale, che ci fa sentire incapaci, goffi e ignoranti, e che ci mette in imbarazzo. Marie Louise Von Franz, allieva di Jung, la descrive così: “la parte disprezzata della personalità, la parte ridicola e non adatta”.
Jung, all’interno della teoria dei Tipi psicologici, distingue quattro funzioni psicologiche, o modi di funzionamento della psiche: due funzioni razionali, pensiero e sentimento, e due irrazionali, sensazione e intuizione. Durante lo sviluppo, la psiche dell’individuo tende a differenziarsi e alcune caratteristiche si specializzano maggiormente rispetto ad altre. Ciò accade in base alle proprie inclinazioni naturali e all’influenza dell’ambiente nel quale si cresce. L’Io quindi si sviluppa basandosi su delle funzioni che tendono a specializzarsi: la funzione superiore è quella che l’individuo utilizza maggiormente e attraverso la quale ottiene maggiore riconoscimento; accanto ad essa vi sono due funzioni ausiliarie, che possono supportare a ampliare la prospettiva adottata con la funzione superiore. Mentre la funzione superiore è conscia, le funzioni ausiliarie lo sono solo parzialmente.

Rimane infine la quarta funzione, o funzione inferiore, l’aspetto della personalità che nel processo di adattamento alla vita è rimasto indietro, e si trova nell’inconscio. Possiamo immaginare la personalità come un albero, in cui la funzione inferiore è rappresentata dalle radici, che si trovano sottoterra, ma proprio per questo costituiscono una risorsa profonda in cui scorre la linfa vitale. Questa linfa è il contatto con l’inconscio. La funzione inferiore quindi non rappresenta solo un lato non sviluppato della personalità, non è solo primitiva, rozza e infantile, ma, se vista da una prospettiva diversa, costituisce una grande ricchezza.
Jung non concepisce lo sviluppo umano esclusivamente come sviluppo della nostra parte cosciente, ma sottolinea l’importanza di instaurare un dialogo con il nostro flusso inconscio.
Per questo Von Franz prosegue dicendo che la funzione inferiore rappresenta anche “quella parte che costituisce il legame con l’inconscio e detiene quindi la chiave segreta per raggiungere la totalità inconscia dell’individuo. Possiamo dire la che la funzione inferiore costituisce sempre il ponte con l’inconscio. Essa è costantemente diretta verso l’inconscio e il mondo simbolico”.
Il confronto con l’Ombra
L’insieme degli atteggiamenti non sviluppati della personalità, o sviluppati in modo incompleto, degli aspetti rimossi perché inaccettabili per l’Io, le caratteristiche nascoste, inferiori e più disprezzate, vanno a costituire quella che Jung chiama Ombra, per sottolinearne l’opposizione rispetto ai lati più in luce della personalità. Il confronto con questa parte inconscia della psiche può essere difficile e causare sofferenza, in quanto significa metterci in discussione e riconoscere e accettare i nostri limiti. Per poter stare meglio, però, è importante aprire un dialogo con tutte le componenti della personalità, altrimenti il rischio è che le parti non viste e non riconosciute agiscano su di noi dall’inconscio. Se, invece, creiamo un interscambio vitale tra di esse, ciò apporterà un arricchimento e lo sviluppo di nuove possibilità psichiche.

Come possiamo accettare le parti di noi che detestiamo? È possibile iniziare un processo di confronto dinamico con l’Ombra, gradualmente, se iniziamo a considerarla come una parte che è stata abbandonata e ignorata, e per questo è diventata ignobile, deficitaria e disprezzata. Attraverso l’atteggiamento compassionevole di cui abbiamo parlato prima, possiamo accettarla come una nostra zona ferita, di cui l’Io deve prendersi cura. Se la detestiamo, non può esserci un confronto, quando invece riusciamo a intravederne anche i vantaggi, come l’apporto di maggiore energia, maggior ampiezza della personalità e più strumenti a nostra disposizione, allora può trasformarsi in un serbatoio di potenziale di sviluppo e nuove energie.
“Amarsi non è una cosa facile, proprio perché significa amare tutto di noi stessi, compresa l’Ombra” James Hillman