Gestione

GESTIONE DEL CONFLITTO

La comprensione del conflitto e delle modalità più adeguate a gestirlo è un tema fondamentale, che diviene ancora più importante alla luce degli avvenimenti che stiamo vivendo in questo periodo. La polemologia si occupa dello studio analitico, a sfondo psicosociologico, dei fenomeni bellici.

Dal punto di vista psicologico, citando Luigi Pagliarani: “Non si tratta di andare oltre la conflittualità. Sostengo invece che bisogna stare dentro la conflittualità, e non si tratta tanto di progettare il futuro ma di stare nel presente e porci le domande che il presente propone, con la responsabilità di trovare le risposte che permettono una sana elaborazione del conflitto”.

Lo psicoanalista Wilfred Bion ha affermato che il conflitto ha bisogno di conoscere e di negare. Nel Dizionario di Psicologia, alla voce conflitto, troviamo la definizione di Umberto Galimberti: “Contrapposizione tra istanze contrastanti”. Possiamo quindi considerare una situazione conflittuale come l’incontro tra punti di vista differenti, differenze di interessi, di valori, di conoscenze

Quando questo accade, vi sono due possibilità: seguire la via della conoscenza oppure della negazione. La strada della conoscenza significa interessarsi a comprendere come stanno le cose, lasciarsi guidare dal punto di vista dell’altro, che può proporre una visione diversa, o addirittura opposta alla nostra. Oppure, come molto spesso accade, si preferisce seguire la via della negazione, che può assumere diverse sfumature, come per esempio l’indifferenza, la superficialità, la collusione o il rinvio, dicendo a sé stessi frasi come – ma si, che sarà mai – oppure – non mi riguarda-.

Per trattare il tema del conflitto, è necessario prendere in considerazione il rapporto esistente tra la nostra intelligenza più arcaica, primordiale, e l’intelligenza più consapevole che abbiamo sviluppato in seguito. La prima rappresenta un’intelligenza non intenzionale, operativa, che ci accomuna a tutti gli esseri viventi, che governa il nostro sistema sensoriale e motorio nel rapporto con gli altri e con il mondo. La seconda, invece, deriva dall’evoluzione della specie, ed è emersa nel momento in cui l’essere umano ha sviluppato la capacità simbolica, che ci permette non solo di pensare, ma di sapere di pensare (quella che in psicologia è chiamata capacità metacognitiva) e di immaginare quello che ancora non c’è. Ciò ci permette di prevedere i comportamenti, in quanto siamo in grado di sapere quello che l’altro sta sentendo o facendo prima che l’altro lo dica. Naturalmente tale capacità può essere utilizzata sia in modo costruttivo sia distruttivo.

La dimensione del conflitto, quindi, caratterizza la nostra esperienza e ci permette di avere con gli altri un atteggiamento costruttivo oppure distruttivo. Quando l’intelligenza arcaica surclassa l’intelligenza consapevole, torniamo a praticare un’aggressività distruttiva. In quanto esseri umani, conteniamo entrambi gli aspetti, e in alcune situazioni la componente arcaica riemerge, non solo nelle tragedie collettive, ma anche nella nostra esperienza quotidiana con gli altri.

Rapporto aggressività-distruttività

In quanto esseri umani, dobbiamo essere consapevoli che siamo una specie aggressiva. Il termine aggressività deriva dal latino adgredior che letteralmente significa avvicinarsi, possiamo infatti utilizzare l’aggressività quando ci rivolgiamo a qualcuno in modo violento, ma anche quando ci abbracciamo e pratichiamo la sessualità. La stessa aggressività, quindi, può essere fonte di incontro, confronto, dialogo, affettività e amore, oppure può diventare distruttiva. La capacità di modulare l’aggressività è una delle conseguenze più rilevanti e significative della civilizzazione della specie. La distruttività, quindi, è solo una delle possibilità di comportamento, e la scelta dipende dalle modalità con cui elaboriamo il confronto con gli altri.

Differenza tra conflitto e antagonismo

Essere completamente d’accordo o essere in guerra rappresentano due estremi, spesso accade, invece, di essere d’accordo solo in parte, e questo confronto tra differenze è ciò che chiamiamo conflitto. Lucrezio, nel De rerum natura, utilizza un’immagine per spiegarlo: quando un seme viene posto nella terra, esso si combina con l’humus del terreno e si produce così un terzo elemento rappresentato dalla pianta che nasce. Il conflitto è quindi un incontro tra A e B, che può produrre C, a condizione che venga efficacemente elaborato. O in altre parole, riprendendo Bion, se ci disponiamo di fronte al conflitto con un atteggiamento di conoscenza anziché di negazione.

Lo psicoanalista Carl Gustav Jung sostiene che, proprio nel momento del conflitto e del contrasto, si attiva la funzione trascendente in grado di generare un simbolo, qualcosa di nuovo che unifica gli opposti superandoli e permette di procedere nello sviluppo psichico. Simbolo, in greco symbolon, deriva da symbollein che significa, infatti, tenere insieme. Per Jung, un vero simbolo è sempre il risultato della cooperazione tra coscienza e inconscio, è un trasformatore di energia che fornisce nuovo slancio vitale, contribuendo al processo di individuazione, cioè il percorso che porta a realizzare sé stessi nella propria unicità.

Una buona elaborazione del conflitto rappresenta la strategia migliore per la prevenzione dell’antagonismo: imparare a gestire efficacemente il conflitto permette di sviluppare un sano confronto ed evitare lo scontro. Ciò consente, inoltre, non solo di scoprire qualcosa dell’altro che non avevamo compreso e non conoscevamo, ma anche di scoprire qualcosa di noi stessi a cui non avevamo mai prestato attenzione, e quindi diviene un’occasione di arricchimento e di crescita.

È necessario quindi cercare di intervenire al momento giusto, prevenendo i processi di negazione e rimozione del conflitto che mettiamo in atto abitualmente, a volte senza rendercene conto. Il conflitto suscita un atteggiamento difensivo, cioè si tende a negarlo invece che affrontarlo, di conseguenza si evita di chiarire come stanno le cose, si cerca di mettere una pietra sopra. Nascondere il problema, non volerlo vedere e affrontare, produce, però, un processo di rimozione che, prima o poi, comporterà delle conseguenze.

Costruire una cultura del conflitto

Per farlo, lo psicologo Ugo Morelli propone di scomporre il conflitto in 5 livelli, strettamente intrecciati tra loro:

  • Conflitto intrapsichico
  • Conflitto interpersonale o di coppia
  • Conflitto tra gruppi
  • Conflitto istituzionale
  • Conflitto collettivo

Livello intrapsichico

La nostra psiche non è un’unità immobile che non cambia mai forma e stato, ma è costituita da una pluralità di parti in relazione tra loro. Una buona elaborazione dei propri conflitti interni, intrapsichici, è la condizione indispensabile per una buona elaborazione anche degli altri livelli del conflitto. Il sogno di Freud era che la psicologia del profondo potesse rappresentare la via per giungere a una maggiore civiltà, nel senso di una buona capacità umana di contenere sé stessi e gli altri, elaborando sistemi relazionali che producessero una civiltà più vivibile. Un onesto confronto con sé stessi rappresenta dunque il primo passo per sviluppare migliori relazioni con gli altri.

Livello interpersonale

Questo livello prende in considerazione il tema del conflitto con un’altra persona. Come è possibile evitare di cadere nell’antagonismo quando si scopre di avere due punti di vista diversi? La condizione di base è riuscire ad ammettere almeno una buona ragione nella posizione dell’altro. Questo richiede impegno, perché implica una messa in discussione delle proprie certezze, aprendo uno spazio all’altro all’interno della propria posizione. Si tratta di un processo di apprendimento e di un processo creativo. Dal confronto tra due poli opposti può nascere un terzo, come abbiamo visto, grazie alla generatività e creatività umana.

Per farlo, però, è necessario aprire un conflitto con le nostre stesse convinzioni. Per questo, purtroppo, a volte non siamo in grado di farlo. Trovare una buona ragione nella posizione dell’altro non significa farla nostra, ma ammettere che essa è valida dal punto di vista dell’altra persona. Ciò permette di costruire una base comune sulla quale sviluppare un confronto. Anche se magari l’altro non farà lo stesso con noi, ciò che possiamo fare è agire su noi stessi e sulla nostra disposizione nei suoi confronti, nella speranza che egli possa assumere una posizione reciproca alla nostra.

Gli ultimi tre livelli aprono alla dimensione collettiva del conflitto: la democrazia si basa sull’istituzione del Parlamento, dove il confronto tra le parti avviene attraverso l’uso della parola. L’antagonismo rappresenta, invece, la fine del confronto attraverso il linguaggio verbale e il passaggio ad altre forme di scontro, fino ad arrivare all’aggressività distruttiva. Il conflitto a livello collettivo può produrre il confronto, spesso distruttivo, tra diverse collettività, ma è in grado di generare anche innovazione e trasformazione sociale.

Concludo citando le parole della scrittrice olandese ebrea Etty Hillesum, vittima dell’Olocausto, ancora estremamente attuali:

Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi, non altrove.

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